Coronavirus, come potrebbe cambiare le regole sociali: tra altruismo e opportunismo

Pubblicato su MIND THE ECONOMY – Il Sole 24 Ore

23 marzo 2020

Abbiamo bisogno di cittadini responsabili ed empatici, non di sceriffi illiberali. C’è da augurarsi che le istituzioni non si facciano prendere dalla smania di facili scorciatoie

di Vittorio Pelligra

10′ di lettura

I nostri giorni hanno preso una piega inaspettata. La diffusione pandemica del virus sta avendo un impatto sulle nostre vite difficile da sottovalutare. I cambiamenti ai quali stiamo andando incontro saranno profondi e non di breve momento. Abbiamo di fronte mesi e forse anni di radicali novità.

Questi mutamenti richiedono una risposta adattativa. Le nostre comunità devono iniziare a cambiare per adattarsi alle mutate circostanze esterne. Al centro di questa risposta non può non esserci uno sforzo cooperativo che ci deve spingere tutti a fare ciascuno la propria parte. Contribuire oggi, con urgenza, nell’ambito di un piano collettivo di contrasto alla diffusione del virus e, già da ora, alla progettazione e realizzazione di ciò che sarà il “dopo”.

Il dilemma del prigioniero 
Già in questa fase le nostre capacità di coordinamento e cooperazione, davanti alla necessità del distanziamento sociale, vengono messe alla prova. Siamo di fronte al tipico dilemma sociale: una situazione nella quale l’interesse individuale sembra, a prima vista, contrastare con l’interesse collettivo. Un grande “dilemma del prigioniero” nel quale il rispetto delle regole da parte di un soggetto spinge altri alla loro violazione. Se tutti stanno in casa per evitare il contagio, proprio perché stanno in casa, sopportando costi a volte anche elevati, io potrò sentirmi sicuro nell’uscire a godere i benefici dell’aria aperta senza correre il rischio di essere contagiato. Parassitando il ligio comportamento dei più, i free-rider ottengono i benefici senza incorrere nei costi. Ma se tutti si dovessero comportare allo stesso modo, naturalmente, questi benefici evaporerebbero in un istante. Se tutti, vedendo le strade affollate sottostimassero il pericolo e uscissero, il pericolo si materializzerebbe proprio per questo. Come indurre allora le persone ad andare contro il loro interesse personale per promuovere, contemporaneamente, il loro interesse personale oltre che quello sociale? Questo quesito ha origini lontane e radici profonde ed assillò per molto tempo lo stesso Darwin che intravvedeva qui una possibile criticità per la sua teoria della selezione naturale.

Le tre condizioni per l’evoluzione della specie 
Nell’”Origine delle Specie”, egli sostenne che la pressione evolutiva genera adattamenti cumulativi solo se si verificano tre specifiche condizioni. La prima dice che ci dev’essere una lotta per l’esistenza; il che implica che non tutti gli individui riusciranno a riprodursi. La seconda prevede che ci sia variazione nelle condizioni che facilitano o ostacolano la probabilità di riproduzione; infine, la terza condizione prevede che tale variabilità sia trasmissibile e quindi ereditabile: la discendenza avrà tratti fisici e comportamentali simili a quelli dei genitori.

Darwin, naturalmente, era convinto che lo stesso schema si applicasse anche a noi, e nell’“Origine dell’Uomo”, arrivò a sostenere che le caratteristiche della società umana fossero il risultato di un processo di competizione tra gruppi basata su differenti codici di comportamento morale. «Non può esservi dubbio – scrive – che una tribù che includa parecchi membri che, in quanto posseggono in misura elevata lo spirito di patriottismo, fedeltà, obbedienza, coraggio e simpatia, siano sempre pronti ad aiutarsi l’un l’altro e a sacrificarsi per il bene comune, potrebbe riuscire vittoriosa su parecchie altre tribù: e questa sarebbe selezione naturale». Gruppi capaci, cioè, di sviluppare comportamenti tali da risolvere, meglio di altri, il problema della cooperazione potranno godere di un vantaggio adattativo e quindi di una maggiore capacità di sopravvivenza e diffusione.

L’evoluzione culturale 
L’idea di una selezione naturale a livello di gruppo e non di singolo individuo, cui sembra alludere Darwin, ha vissuto negli anni alterne vicende. Oggi, pur dopo una riabilitazione fondata su nuove evidenze e modelli teorici, il consenso tra gli studiosi continua a non essere unanime. Diversa, invece, è la situazione per quanto riguarda la plausibilità dell’argomentazione di Darwin applicata non all’evoluzione biologica, ma a quella culturale. Norme sociali, codici culturali e morali, tradizioni vengono trasmesse tra le generazioni e determinano in maniera cruciale la capacità di singoli gruppi di adattarsi all’ambiente e, quindi, la possibilità di sopravvivere e di svilupparsi. Troviamo quindi, tratti comuni, in quei popoli che, grazie alla cultura, hanno meglio di altri saputo risolvere i problemi posti da un ambiente ostile. Particolare importanza, in questo senso, rivestono quei tratti comportamentali che per millenni ci hanno insegnato ad affrontare e a risolvere il problema della cooperazione, che hanno dato gambe e stabilità alla nostra capacità di fare le cose insieme.

La selezione di parentela e il “gene egoista” 
Come si è sviluppata questa “ipersocialità” e quali meccanismi ne hanno favorito l’evoluzione? Il primo tipo di spiegazione si basa sulla selezione di parentela, un principio popolarizzato con la fortunata espressione “gene egoista”. La collaborazione che noi osserviamo nelle nostre comunità ha una base genetica che si giustifica in virtù della parentela. Siccome individui geneticamente correlati condividono parte del loro patrimonio genetico, possono essere disposti ad aiutarsi tra loro e anche a sacrificarsi per il bene dell’altro, se questo fa aumentare le probabilità di riproduzione non tanto del singolo individuo ma, e qua sta il punto, del suo patrimonio genetico che risiede, come abbiamo visto, negli individui imparentati. Una madre che si sacrifica per il figlio e uno zio per il nipote non stanno facendo che, “egoisticamente”, favorire la sopravvivenza di quella parte del loro stesso patrimonio genetico condiviso con il figlio o il nipote.

Rimane famosa e un po’ leggendaria la risposta che il grande genetista John Haldane sembra abbia dato durante una accesa discussione in un pub a chi gli chiedeva se sarebbe stato disposto a sacrificarsi per il bene comune: «Mi sacrificherei per due fratelli e otto cugini».

L’altruismo può essere evolutivamente vantaggioso 
La selezione di parentela gioca certamente un ruolo importante nella spiegazione della nostra ipersocialità, ma non esaurisce tutta la storia. Come spiegare, altrimenti, quelle forme di altruismo verso gli sconosciuti che pure pervadono e fondano la nostra vita in comune? Un secondo principio venne proposto agli inizi degli anni ’70 da un personaggio, anch’esso al limite del leggendario, Robert Trivers. Trivers era allora un giovane studente quando ebbe un’intuizione fulminante che sviluppò poi in un articolo divenuto famosissimo pubblicato nel 1971 sulla Quarterly Review of Biology.

L’idea di fondo è tanto semplice quanto geniale. Un’azione altruistica, l’aiutare, cioè, un altro soggetto anche estraneo dal punto di vista genetico, anche in maniera costosa, può essere evolutivamente vantaggioso se esiste una certa probabilità di trovarsi in futuro nella stessa situazione, ma a parti invertite. E infatti Trivers chiama questo principio “altruismo reciproco”. Le nostre azioni sono nella stragrande maggioranza dei casi inserite all’interno di relazioni stabili e ripetute. In queste circostanze se ci troviamo nelle condizioni di avere bisogno di aiuto da qualcuno che recentemente avevamo aiutato a nostra volta, produce un beneficio reciproco che crea le condizioni per un vantaggio adattativo.

Questi comportamenti verrebbero selezionati dalla pressione evolutiva e resi stabili. Ma ancora una volta questa spiegazione, ci dice molto sulla nostra capacità di cooperazione, ma non tutto. Non si capisce, per esempio, come inquadrare in questa cornice quegli esempi di altruismo estemporaneo verso persone che sappiamo che non incontreremo mai più, così come tutte le forme impersonali di rispetto delle regole sociali che poniamo in essere anche nei casi in cui nessuno ci sta a guardare. Perché, dobbiamo chiederci, anche se indossassimo il platonico anello di Gige, sceglieremmo comunque di continuare a cooperare?Io resto casa, tra regole bimbi e camminate su posto 

Il caso della tribù dei pigmei 
Può aiutarci a capire questo punto la storia di Cephu, un membro anziano della tribù Bambuti, dei pigmei attivi nell’Africa centrale. La storia ci è stata raccontata da Richard Turnbull, grande antropologo che visse coi pigmei molti anni, ne apprese la lingua e contribuì in maniera fondamentale alla conoscenza di quel popolo, della sua cultura e della sua struttura sociale (“I Pigmei. Il Popolo delle Foresta”, Rusconi, 1979). La caccia, per i pigmei, una popolazione con una struttura sociale fondamentalmente egualitaria, è un’attività fortemente cooperativa.

Da una parte si muovono donne e bambini che percuotono il terreno e la vegetazione con lunghi bastoni in modo da fare un grande rumore che spaventa la selvaggina presente in quella porzione di foresta facendola fuggire nella direzione opposta, dove gli uomini del gruppo hanno sistemato decine di reti in modo da creare una grande trappola semicircolare. Ogni cacciatore ha la sua rete ed ognuno avrà diritto alle prede che ci finiranno intrappolate. Benché gli animali catturati non verranno spartiti se non con i membri della famiglia estesa di ciascun cacciatore, l’abbondanza di animali e il posizionamento delle reti, garantisce una distribuzione equa delle prede tra tutti i partecipanti, donne e bambini compresi. Ciò si verifica fintantoché ogni partecipante farà la sua parte.

Infragere le regole di una comunità 
Ora, un giorno capitò che Chephu, approfittando della fitta vegetazione della foresta, convinto che nessuno potesse vederlo, decise di riposizionare la sua rete, ponendola avanti a quelle degli altri cacciatori, in modo da aumentare le chances che gli animali, nella loro fuga, si trovassero intrappolati prima nella sua rete, invece che secondo un ordine casuale nelle reti di tutti gli altri cacciatori.

Quando Cephu tornò al villaggio con la rete piena di selvaggina, l’accoglienza non fu quella sperata. In un gruppo fortemente coeso come quello dei Bambuti, che si trova ad affrontare quotidianamente enormi avversità ambientali, la sopravvivenza dei singoli dipende dalla capacità di ciascun membro di cooperare e di seguire norme di aiuto reciproco strettamente codificate. Si può capire, quindi, quanto la violazione di tali norme e i comportamenti egoistici e l’opportunistimo possano rappresentare uno scandalo ed una colpa. Cephu venne sulle prime ignorato, poi umiliato verbalmente, successivamente minacciato ed infine espulso, assieme a tutto il suo clan, dalla tribù. Questa punizione equivaleva ad una condanna a morte; una morte lenta e terribile, causata dalla difficoltà che il clan avrebbe sperimentato nel procurarsi il cibo senza l’aiuto di tutti gli altri. Ma Cephu era un uomo di esperienza e benché opportunista, capì il rischio a cui si stava esponendo, per cui decise di tornare dagli altri cacciatori a implorare il loro perdono, con gesti di umiltà e sottomissione anche ai membri più giovani del gruppo. Un costo reputazionale enorme, che se non ha prevenuto il comportamento opportunistico di Cephu certamente ne avrà scoraggiato la ripetizione e avrà impartito un severo ammonimento a tutti gli altri membri della tribù.

La reazione delle comunità all’opportunismo 
La storia dei pigmei, in questo senso, non è certo particolarmente originale. Osserviamo comportamenti simili in tutte le civiltà. I Tunuvivi australiani puniscono l’opportunismo lanciando spine sulle gambe nude dei colpevoli, gli Hadza della Tanzania gli impediscono l’accesso alle risorse d’acqua, i Turkana del Kenya legano l’incauto ad un albero dove verrà sferzato da un gruppo di coetanei. La vendetta per un torto subito sta alla base dell’ordinamento barbaricino studiato negli anni ’50 da Antonio Pigliaru. «Le norme istitutive della pratica della vendetta – scrive Pigliaru – paiono suggerire l’ipotesi che esse siano pensate per stimolare una più sicura e certa solidarietà tra i singoli membri e la società di cui fanno parte».

L’autodomesticazione della nostra specie 
I sistemi cooperativi non collassano sotto l’azione disgregante dei free-riders perché questi vengono puniti severamente, ora col biasimo, ora col pettegolezzo o con parole aspre, a volte con punizioni fisiche che possono arrivare fino all’uccisione. È questo meccanismo di sanzionamento decentralizzato che, secondo alcuni, ha portato ad una vera e propria forma di “autodomesticazione” della nostra specie, attraverso l’allontanamento e l’eliminazione fisica dei soggetti devianti, i più violenti e i meno cooperativi. Le norme che presiedono alla vita comune e che ci aiutano da millenni ad affrontare e risolvere i dilemmi sociali, anche nei gruppi non imparentati geneticamente, vengono rinforzate dalla minaccia di sanzioni decentralizzate da parte degli altri membri del gruppo. Sanzioni che ad un certo punto, una volta internalizzate le norme, non serviranno più.

Le società avanzate e l’esternalizzazione della sanzione 
La struttura delle nostre società avanzate ha subito profonde mutazioni ed è, oggi, naturalmente, molto diversa. Con la perdita dell’egualitarismo e l’affermarsi della stratificazione dei ruoli sociali anche la funzione sanzionatoria è stata “esternalizzata”, per così dire.

Abbiamo costruito un sistema centralizzato di controllo, il Leviatano hobbesiano, al quale abbiamo assegnato il legittimo potere di punire i comportamenti devianti, in particolare, quelli capaci di destabilizzare l’ordinamento cooperativo. Questo meccanismo, nonostante i limiti intrinseci e operativi, è certamente più efficace del meccanismo decentralizzato, anche se non sempre più efficiente. Nonostante la natura impersonale e l’astrattismo giuridico che lo contraddistingue, anche il sistema centralizzato continua a basarsi sull’antica pulsione sanzionatoria che abbiamo sviluppato ed internalizzato in migliaia di anni di evoluzione culturale. Di questo bisogna tener gran conto, soprattutto in momenti come questo.

La promulgazione e l’implementazione delle nuove norme legate all’emergenza coronavirus fa emergere questo elemento in maniera evidente. Da una parte abbiamo un apparato di controllo e di punizione delle violazioni che è in capo alle forze dell’ordine, organo legittimo e centralizzato; ma dall’altra assistiamo anche al dispiegarsi di un’azione decentralizzata da parte dei singoli cittadini che osservano violazioni vere o presunte e che agiscono punendo come possono, con il biasimo, la colpevolizzazione, a volte la prepotenza e che rasenta la violenza.

Viviamo una situazione ambivalente, nella quale l’azione dell’autorità può essere rafforzata e resa più efficace dall’azione sanzionatoria dei singoli, ma allo stesso tempo corriamo il rischio di delegare ai singoli dei compiti che dovrebbero essere affidati a chi, solo e legittimamente, può esercitare la forza coercitiva. Nell’ambivalenza emergono certe intemperanze verbali di alcuni amministratori locali che in questi giorni sono state rilanciate da stampa e social.

La naturale pulsione alla punizione di chi ci appare deviante è una spinta primordiale, dotata di una forza che non dovremmo sottovalutare. Una società evoluta si fonda sul potere legittimo e riduce gli spazi per la punizione decentralizzata al minimo. Situazioni estreme come quella che stiamo vivendo in queste settimane possono alterare tale equilibrio. Abbiamo bisogno di cittadini responsabili ed empatici, non di sceriffi illiberali. C’è da augurarsi che, viste le difficoltà oggettive, le istituzioni non si facciano prendere dalla smania di facili scorciatoie. Occorrono figure capaci di guidare con l’esempio, che mostrino autorevolezza e competenza, capacità di gestione delle emergenze e sangue freddo. Non abbiamo bisogno di giustificazioni morali che alimentino il sospetto reciproco, la calunnia strisciante, e le gogne social.

L’evoluzione culturale e i nostri grandi cervelli ci hanno fatto passare con velocità impressionante dalle caverne ai grattaceli, dall’economia di sussistenza alla società di mercato, dalla “guerra di tutti contro tutti” alle democrazie liberali. Vigiliamo affinché l’emergenza e le avversità che ci si pongono di fronte non intacchino neanche un po’ queste irrinunciabili conquiste, ma siano invece, alla lunga, occasione di crescita e nuovo sviluppo.

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