Quando la matematica accende il conflitto

A Palestinian boy walks past a drawing by British graffiti artist Banksy near the Kalandia ...

La teoria dei giochi e il conflitto israelo-palestinese

Lo scontro tra israeliani e palestinesi, riacceso in questi giorni dal lancio di razzi da parte di Hamas e dalla conseguente invasione di terra dei carrarmati di Gerusalemme, rappresenta un vero e proprio rebus diplomatico e geopolitico. Avendo visitato più volte quei luoghi ho potuto respirare storie che non si dimenticano fatte di violenze e sofferenze da entrambe le parti, ripetuti accordi traditi, sopraffazioni, provocazioni e molto altro. Prendere una posizione netta, ragionata e razionale, per l’una o per l’altra parte, non è semplice e forse non è proprio possibile. Non è impossibile, invece, mi pare, cercare di comprendere meglio la logica che sta alla base di questo conflitto e che in qualche modo lo rende così difficile da risolvere.

Ho capito qualcosa di più a questo riguardo in un dialogo pubblico avuto il mese scorso con Robert Aumann, premio Nobel per l’economia, teorico dei giochi, grande esperto di strategia, ebreo osservante ed esponente della destra politica israeliana, i cosiddetti “falchi”. Aumann è stato con molti altri, uno degli artefici della strategia degli Stati Uniti durante la guerra fredda. L’idea alla base della sua posizione è esemplificata dal brocardo latino si vis pacem, para bellum, se vuoi la pace prepara la guerra. Il concetto di fondo è quello della deterrenza. Noi vogliamo la pace e non attacchiamo per primi, ma se qualcuno decide di attaccarci, allora saremo pronti a contrattaccare con determinazione e sarà questa disponibilità a punire, a contrattaccare, che indurrà l’altra parte a non farlo. Se vuoi la pace, si pronto alla guerra, appunto.

Nei fatti, questa dottrina del “delicato equilibrio del terrore” ha garantito negli anni della guerra fredda, una pace tanto fragile, quanto duratura. Altri tre elementi contribuirono a far funzionare la logica della deterrenza: il fatto di avere una situazione polarizzata che prevedeva solo due attori, Stati Uniti ed Unione Sovietica; la simmetria tra le parti, cioè il fatto che l’arsenale nucleare delle due super potenze fossero, o almeno così si pensava all’epoca, equivalenti; il terzo elemento era rappresentato dalle alternative;l’altra alternativa possibile, allora, all’equilibrio del terrore era rappresentata dalla dottrina dell’attacco preventivo: siccome prima o poi l’altra parte ci attaccherà e allora per noi sarà la fine, ragionavano entrambe le parti, tanto vale che siamo noi ad attaccare per primi per sfruttare, in questo modo, il vantaggio della sorpresa.

Dal dialogo avuto con Robert Aumann, mi sono fatto l’idea che egli sia rimasto convinto del fatto che la strategia deterrenza possa garantire, anche nel mondo di oggi, policentrico e asimmetrico, la pace, anche quella, per esempio, tra israeliani e palestinesi. Alla base di questa convinzione sta una incrollabile fiducia nel potere della matematica, della “sua” teoria dei giochi ripetuti, lavoro per il quale ha ottenuto il Nobel, che spiega in effetti come tra due giocatori totalmente autointeressati, sia possibile ottenere la cooperazione in situazioni difficili (il famoso dilemma del prigioniero, per esempio, nato anch’esso nell’ambiente della RAND Corp. come l’idea del “delicato equilibrio del terrore” di cui sopra). Affinché ciò possa avvenire è necessario che ogni giocatore possa minacciare l’altro di non cooperare, nel caso in cui anche l’altro non cooperasse. Se la situazione è ripetuta un numero indefinito di volte, allora anche soggetti puramente autointeressati, saranno spinti a cooperare.

Da qui il ragionamento di Aumann: Anche se le due parti in gioco non vogliono la pace (la cooperazione) saranno spinti a ottenerla dalla volontà di evitare i costi protratti della punizione derivante da una sua violazione. Questa è la stessa logica che sta alla base della strategia, detta tit-for-tat, dell’esercito israeliano che prevede ritorsioni immediate ad attacchi e provocazioni.

La logica del ragionamento è stringente, la qualità della matematica che lo supporta è eccellente, la fiducia di Aumann nelle sue conclusioni, incrollabile. Eppure la guerra continua. Perché?

aumann

 

L’homo sapiens non è l’homo economicus.

Se guardiamo meglio le assunzioni che stanno alla base della teoria di Aumann, e di tutta la teoria dei giochi classica, troviamo tre concetti di particolare importanza: l’autointresse, la razionalità e la conoscenza comune della razionalità. I principali modelli teorici, assumono cioè che i soggetti, i giocatori, siano mossi nelle loro scelte esclusivamente dal perseguimento del loro interesse individuale; assumono anche che i soggetti siano perfettamente razionali (cioè coerenti, perfetti nelle loro capacità di calcolo e memoria, del tutto impermeabili ad emozioni ed influenze sociali, etc.) e inoltre, che tale razionalità sia nota ad ogni giocatore; cioè che ciascun giocatore possa dire di sapere che l’altro è razionale e che l’altro possa dire che il primo sa che lui è razionale e così via all’infinito. Solo se queste tre assunzioni sono soddisfatte allora le conclusioni della teoria dei giochi classica saranno verificate.

Sfortunatamente o fortunatamente l’homo sapiens non è l’homo economicus. Sappiamo cioè molto bene, dagli studi di psicologia cognitiva ed economia comportamentale, come e quanto le persone reali si discostino da tale modello: quanto spesso non si comportino in maniera autointeressata, quanto poco siano razionali nel senso classico e quanto siano incapaci di ragionare sulla base della conoscenza comune della razionalità.

Da questo non deriva ancora che la conclusione di Aumann circa la possibilità che la pace si fondi sulla minaccia, risulti del tutto campata per aria.

Se è vero, infatti, che le persone reali, a differenza dell’homo economicus, non sono puramente autointeressate e razionali, è anche vero che il loro comportamento è comunque sistematico, e quindi prevedibile. Una delle regolarità che è emersa in maniera chiara dalle ricerche degli ultimi anni, è la spiccata tendenza che gli esseri umani hanno a punire, anche se tale punizione è costosa, quelli che, a loro detta, si comportano in maniera ingiusta o violano una norma sociale condivisa. Questa tendenza è stata definita strong reciprocity è sta alla base del cosiddetto altruistic punishment. Mentre nella teoria di Aumann, i giocatori erano disposti a punire la controparte per convincerla a cooperare negli incontri successivi, nel caso della punizione altruistica, le persone sono disposte a punire coloro che hanno violato la norma, anche se sanno che non avranno mai più a che fare con quella persona e quindi non potranno beneficiare di una sua eventuale “conversione”. In altre parole sopporto dei costi per punirti, affinché tu sia disposto a cooperare con qualcun altro; ecco perché questa punizione è detta altruistica.

La presenza di strong reciprocity, quindi, consente alla cooperazione (la non belligeranza, nel nostro esempio) di diffondersi anche in presenza di una comunità di soggetti non puramente autointeressati, non perfettamente razionali e in assenza di conoscenza comune della razionalità. Intorno a questa idea si è sviluppata un fiorente programma di ricerca e una vastissima letteratura, con migliaia di pubblicazioni e ricercatori di primissimo piano che hanno investigato i fondamenti evolutivi e neuroscientifici del nostro senso di giustizia, della nostra avversione all’iniquità, della nostra tendenza alla reciprocità e alla punizione ed esplorato le loro conseguenze sociali ed istituzionali.

Questi nuovi risultati, dunque, sembrano dare nuova linfa alle conclusioni di Aumann, che così acquistano un inatteso realismo: la minaccia credibile di una punizione, fondata su un tratto evolutivo caratteristico di tutti i primati superiori, la strong reciprocity, costituisce la migliore garanzia per la pace.

Ma allora perché le feroci conseguenze dello scontro tra Israele e Palestina sono ancora tragicamente davanti ai nostri occhi?

 

Occhio per occhio rende il mondo cieco.

Nel 2008, un giovane economista di origine greche, Nikos Nikiforakis, pubblica un ingegnoso studio che descrive un esperimento nel quale i soggetti sono posti un una situazione sociale tipo dilemma del prigioniero. In questa situazione se tutti cooperassero, tutti starebbero meglio; ma nel momento in cui ci si aspettasse la cooperazione da parte di tutti, diventerebbe ottimale per ciascuno smettere di cooperare, per poter, così, godere dei benefici prodotti da tutti gli altri, senza incorrere nei costi associati. Questa è la tipica situazione utilizzata (e risolta) negli studi sulla strong reciprocity. Cooperare non è razionale, ma la paura di una punizione altruistica, porterà anche soggetti autointeressati a cooperare. E qui si inserisce la novità dello studio di Nikiforakis il quale si chiede che cosa succederebbe se si desse ai giocatori che sono stati puniti la possibilità di contro-punire colui o colei da cui hanno ricevuto la punizione: accetteranno la punizione di buon grado e cercheranno di fare i bravi da quel momento in poi o sfrutteranno la possibilità di contro-punire per esprimere il loro disappunto circa la punizione ricevuta e magari ritenuta illegittima o eccessiva? Naturalmente ciò che accade è che la stragrande maggioranza di coloro che vengono puniti, non accettano la punizione di buon grado e reagiscono contro-punendo. Succede quindi che per paura di essere contro-puniti, coloro che cooperano decidono di smettere di punire chi non coopera e poi, di conseguenza, smettono di cooperare loro stessi. Ciò che si ottiene alla fine è il collasso della cooperazione. Nessuno fa più la propria parte, e si finisce nell’anarchia, bellum omnium contra omnes.

Nikiforakis

 

Il grafico riporta l’evoluzione del livello di cooperazione senza punizione (VCM), con punizione (P) e con punizione e contropunizione (PCP) (Fonte: Nikiforakis, 2008)

 

Quando alla punizione, più o meno legittima, può seguire una contro-punizione, così come di solito capita nelle situazioni della vita reale, il meccanismo della strong reciprocity non garantisce più l’emergenza della cooperazione, anzi favorisce l’insorgenza di cicli, potenzialmente infiniti, di punizione e contro-punizione.

Ecco quello che stiamo osservando da decenni ormai tra Israeliani e Palestinesi, cicli infiniti di punizioni e contro-punizioni.

Senza voler prendere una posizione netta per una parte o per l’altra, che come dicevo in apertura, mi sembra operazione troppo complessa, per essere giustificata qui, non posso non chiedermi che ruolo, Robert Aumann e altri come lui, abbiamo avuto nel plasmare sulla base di una teoria sorpassata e male applicata, la strategia militare israeliana. E chissà quanto ci vorrà perché i più recenti risultati della ricerca che evidenziano la dannosità di una dottrina basata sulla punizione colpo su colpo, arrivino ai generali israeliani consentendo l’elaborazione di nuove strategie capaci di far raffreddare il conflitto piuttosto che di innescarlo periodicamente con il costante rischio di incendiare l’intera regione.

Speriamo non sia davvero troppo.

 

 

Per approfondire

– Aumann, R., (2006). Nobel Prize Lecture, in  Les Prix Nobel. The Nobel Prizes 2005, Editor Karl Grandin, [Nobel Foundation], Stockholm.

– Fehr, E., Fischbacher, U, Gächter, S., (2002). Strong Reciprocity, Human Cooperation and the Enforcement of Social Norms. Human Nature, n.13 (2002): 1-25

– Fehr, E., U, Gächter, S., (2002). Altruistic punishment in humans, Nature n. 415: 137-140

– Kaplan, F., (1991). The Wizards of Armageddon,  Stanford University Press (Stanford Nuclear Age Series)

– Nikiforakis N.,. (2008). “Punishment and Counter-Punishment in Public Good Games: Can We Really Govern Ourselves?” Journal of Public Economics 92, 91-112.

– Nikiforakis N.,  Noussair, C., Wilkening, T., (2012) “Normative Conflict and Feuds: The Limits of Self-Enforcement” Journal of Public Economics 96 (9-10), 797-807.

 

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